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Alighieri, Dante
Convivio

XIII

Alla questione rispondendo, dico che propiamente crescere lo desiderio della scienza dire non si può, avegna che, come detto è, per alcuno modo si dilati. Ché quello che propiamente cresce, sempre è uno: lo desiderio della scienza non è sempre uno ma è molti, e finito l'uno, viene l'altro; sì che, propiamente parlando, non è crescere lo suo dilatare, ma successione di picciola cosa in grande cosa. Ché se io desidero di sapere li principii delle cose naturali, incontanente che io so questi, è compiuto e terminato questo desiderio. E se poi io desidero di sapere che cosa e com'è ciascuno di questi principii, questo è un altro desiderio nuovo, né per l'avenimento di questo non mi si toglie la perfezione alla quale mi condusse l'altro; e questo cotale dilatare non è cagione d'imperfezione, ma di perfezione maggiore. Quello veramente della ricchezza è propiamente crescere, ché è sempre pur uno, sì che nulla successione quivi si vede, e per nullo termine e per nulla perfezione. E se l'avversario vuole dire che, sì come è altro desiderio quello di sapere li principii delle cose naturali, e altro di sapere che elli sono; così altro desiderio è quello delle cento marche, e altro è quello delle mille; rispondo che non è vero: ché 'l cento si è parte del mille, e ha ordine ad esso come parte d'una linea a tutta la linea, su per la quale si procede per uno moto solo, e nulla successione quivi è né perfezione di moto in parte alcuna. Ma conoscere che siano li principii delle cose naturali, e conoscere quello che sia ciascheduno, non è parte l'uno dell'altro, e hanno ordine insieme come diverse linee, per le quali non si procede per uno moto, ma, perfetto lo moto dell'una, succede lo moto dell'altra. E così appare che dal desiderio della scienza, la scienza non è da dire imperfetta sì come le ricchezze sono da dire per lo loro, come la questione ponea: ché nel desiderare della scienza successivamente finiscono li desiderii e vienesi a perfezione, e in quello della ricchezza no. Sì che la questione è soluta, e non ha luogo. Ben puote ancora calunniare l'aversario dicendo che, avegna che molti desiderii si compiano nello acquisto della scienza, mai non si viene all'ultimo: che è quasi simile alla imperfezione di quello che non si termina e che è pur uno. Ancora qui si risponde che non è vero ciò che si oppone, cioè che mai non si viene all'ultimo: ché li nostri desiderii naturali, sì come di sopra nel terzo trattato è mostrato, sono a certo termine discendenti; e quello della scienza è naturale, sì che certo termine quello compie, avegna che pochi, per male camminare, compiano la giornata. E chi intende lo Comentatore nel terzo dell'Anima, questo intende da lui. E però dice Aristotile nel decimo dell'Etica, contra Simonide poeta parlando, che «l'uomo si dee traere alle divine cose quanto può»: in che mostra che a certo fine bada la nostra potenza. E nel primo dell'Etica dice che «'l disciplinato chiede di sapere certezza nelle cose, secondo che la loro natura di certezza si riceva»: in che mostra che non solamente dalla parte dell'uomo desiderante, ma deesi fine attendere dalla parte dello scibile desiderato. E però Paolo dice: «Non più sapere che sapere si convegna, ma sapere a misura». Sì che, per qualunque modo lo desiderare della scienza si prende, o generalmente o particularmente, a perfezione viene. E però la scienza ha perfetta e nobile perfezione, e per suo desiderio sua perfezione non perde come le maladette ricchezze. Le quali come nella loro possessione siano dannose brievemente è da mostrare, che è la terza nota della loro imperfezione. Puotesi vedere la loro possessione essere dannosa per due ragioni: l'una, che è cagione di male; l'altra, che è privazione di bene. Cagione è di male, ché fa, pur vegliando, lo possessore timido e odioso. Quanta paura è quella di colui che appo sé sente ricchezza, in camminando, in soggiornando, non pur vegghiando ma dormendo, non pur di perdere l'avere ma la persona per l'avere! Ben lo sanno li miseri mercatanti che per lo mondo vanno, che le foglie che 'l vento fa menare, li fan tremare quando seco ricchezze portano; e quando sanza esse sono, pieni di sicurtade, cantando e ragionando fanno loro cammino più brieve. E però dice lo Savio: «Se vòto camminatore entrasse nel cammino, dinanzi alli ladroni canterebbe». E ciò vuol dire Lucano nel quinto libro, quando commenda la povertà di sicuranza, dicendo: «Oh sicura facultà della povera vita! oh stretti abitaculi e masserizie! oh non ancora intese ricchezze delli Dèi! A quali tempî o a quali muri poteo questo avenire, cioè non temere con alcuno tumulto, bussando la mano di Cesare?». E quello dice Lucano quando ritrae come Cesare di notte alla casetta del pescatore Amiclas venne, per passare lo mare Adriano. E quanto odio è quello che ciascuno al posseditore della ricchezza porta, o per invidia o per desiderio di prendere quella possessione! Certo tanto è, che molte volte contra la debita pietade lo figlio alla morte del padre intende: e di questo grandissime e manifestissime esperienze possono avere i Latini e dalla parte di Po e dalla parte di Tevero! E però Boezio, nel secondo della sua Consolazione dice: «Per certo l'avarizia fa li uomini odiosi». Anche è privazione di bene la loro possessione. Ché, possedendo quelle, larghezza non si fa, che è vertude nella quale è perfetto bene e la quale fa li uomini splendienti e amati: che non può essere possedendo quelle, ma quelle lasciando di possedere. Onde Boezio nel medesimo libro dice: «Allora è buona la pecunia, quando, transmutata nelli altri per uso di larghezza, più non si possiede». Per che assai è manifesto la loro viltade per tutte le sue note. E però l'uomo di diritto appetito e di vera conoscenza quelle mai non ama, e non amandole, mai non si unisce ad esse, ma quelle sempre di lungi da sé essere vuole, se non in quanto ad alcuno necessario servigio sono ordinate. Ed è cosa ragionevole, però che lo perfetto collo imperfetto non si può congiugnere: onde vedemo che la torta linea colla diritta non si congiunge mai, e se alcuno congiungimento v'è, non è da linea a linea ma da punto a punto. E però séguita che l'animo che è «diritto», cioè d'appetito, e «verace», cioè di conoscenza, per loro perdita non si disface; sì come lo testo pone nel fine di questa parte. E per questo effetto intende di provare lo testo che elle siano fiume corrente di lungi dalla diritta torre della ragione o vero di nobilitade; e per questo, che esse divizie non possono tòrre la nobilitade a chi l'ha. E per questo modo disputasi e ripruovasi contra le ricchezze per la presente canzone.