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Alighieri, Dante
Convivio

VII

Poi che veduto è quanto è da reverire l'autoritade imperiale e la filosofica, che deono aiutare le proposte oppinioni, è da ritornare al diritto calle dello inteso processo. Dico dunque che questa ultima oppinione del vulgo è tanto durata, che sanza altro respetto, sanza inquisizione d'alcuna ragione, gentile è chiamato ciascuno che figlio sia o nepote d'alcuno valente uomo, tutto che esso sia da niente. E questo è quello che dice: ed è tanto durata la così falsa oppinïon tra nui, che l'uom chiama colui omo gentil, che può dicere: Io fui nepote o figlio di cotal valente, benché sia da nïente. Per che è da notare che pericolosissima negligenza è lasciare la mala oppinione prendere piede: ché così come l'erba multiplica nel campo non cultato, e sormonta e cuopre la spiga del frumento sì che, disparte aguardando, lo frumento non pare, e perdesi lo frutto finalmente, così la mala oppinione nella mente, non gastigata e corretta, sì cresce e multiplica sì che le spighe della ragione, cioè la vera oppinione, si nasconde e quasi sepulta si perde. Oh come è grande la mia impresa in questa canzone, a volere omai così trifoglioso campo sarchiare, come quello della comune sentenza, sì lungamente da questa cultura abandonato! Certo non del tutto questo mondare intendo, ma solo in quelle parti dove le spighe della ragione non sono del tutto sorprese: cioè coloro dirizzare intendo ne' quali alcuno lumetto di ragione per buona loro natura vive ancora; ché delli altri tanto è da curare quanto di bruti animali: però che non minore maraviglia mi sembra reducere a ragione quelli in cui è ragione del tutto spenta, che reducere in vita colui che quattro dì è stato nel sepulcro. Poi che la mala condizione di questa populare oppinione è narrata, subitamente, quasi come cosa orribile quella percuoto, fuori di tutto l'ordine della riprovagione, dicendo: Ma vilissimo sembra, a chi 'l ver guata, a dare ad intendere la sua intollerabile malizia, dicendo costoro mentire massimamente; però che non solamente colui è vile, cioè non gentile, che disceso di buoni è malvagio, ma eziandio è vilissimo: e pongo essemplo del cammino mostrato. Dove, a ciò mostrare, fare mi conviene una questione, e rispondere a quella, in questo modo. Una pianura è con certi sentieri: campo con siepi, con fossati, con pietre, con legname, con tutti quasi impedimenti fuori delli suoi stretti sentieri. Nevato è sì che tutto cuopre la neve, e rende una figura in ogni parte, sì che d'alcuno sentiero vestigio non si vede. Viene alcuno dall'una parte della campagna e vuole andare a una magione che è dall'altra parte; e per sua industria, cioè per acorgimento e per bontade d'ingegno, solo da sé guidato, per lo diritto cammino si va là dove intende, lasciando le vestigie delli suoi passi diretro da sé. Viene un altro apresso costui, e vuole a questa magione andare, e non li è mestiere se non seguire li vestigi lasciati; e per suo difetto lo cammino, che altri sanza scorta ha saputo tenere, questo, scorto, erra, e tortisce per li pruni e per le ruvine, e alla parte dove dee non va. Quale di costoro si dee dicere valente? Rispondo: quelli che andò dinanzi. Questo altro come si chiamerà? Rispondo: vilissimo. Perché non si chiama non valente, cioè vile? Rispondo: perché non valente, cioè vile, sarebbe da chiamare colui che, non avendo alcuna scorta, non fosse ben camminato; ma però che questi l'ebbe, lo suo errore e lo suo difetto non può salire, e però è da dire non vile ma vilissimo. E così quelli che dal padre o d'alcuno suo maggiore , non solamente è vile, ma vilissimo e degno d'ogni despetto e vituperio più che altro villano. E perché l'uomo da questa infima viltade si guardi, comanda Salomone a colui che 'l valente antecessore hae avuto, nel vigesimo secondo capitolo delli Proverbi: «Non trapasserai li termini antichi che puosero li padri tuoi»; e dinanzi dice, nel quarto capitolo del detto libro: «La via de' giusti», cioè de' valenti, «quasi luce splendiente procede, e quella delli malvagi è oscura. Elli non sanno dove rovinano». Ultimamente quando si dice: e tocca a tal, ch'è morto e va per terra, a maggiore detrimento dico questo cotale vilissimo essere morto, parendo vivo. Onde è da sapere che veramente morto lo malvagio uomo dire si puote, e massimamente quelli che dalla via del buono suo antecessore si parte. E ciò si può così mostrare. Sì come dice Aristotile nel secondo dell'Anima, «vivere è l'essere delli viventi»; e per ciò che vivere è per molti modi (sì come nelle piante vegetare, nelli animali vegetare e sentire e muovere, nelli uomini vegetare, sentire, muovere e ragionare o vero intelligere), e le cose si deono denominare dalla più nobile parte, manifesto è che vivere nelli animali è sentire – animali, dico, bruti –, vivere nell'uomo è ragione usare. Dunque, se vivere è l'essere delli viventi, e vivere nell'uomo è ragione usare, ragione usare è l'essere dell'uomo, e così da quello uso partire è partire da essere, e così è essere morto. E non si parte dall'uso del ragionare chi non ragiona lo fine della sua vita? e non si parte dall'uso della ragione chi non ragiona lo cammino che far dee? Certo si parte; e ciò si manifesta massimamente in colui che ha le vestigie inanzi, e non le mira. E però dice Salomone nel quinto capitolo delli Proverbi: «Quelli morirà che non ebbe disciplina, e nella moltitudine della sua stoltezza sarà ingannato». Ciò è a dire: colui è morto che non si fé discepolo, che non segue lo maestro; e questo vilissimo è quello. Potrebbe alcuno dicere: Come? è morto e va? Rispondo che è morto uomo e rimaso bestia. Ché, sì come dice lo Filosofo nel secondo dell'Anima, le potenze dell'anima stanno sopra sé come la figura dello quadrangulo sta sopra lo triangulo, e lo pentangulo, cioè la figura che ha cinque canti, sta sopra lo quadrangulo: e così la sensitiva sta sopra la vegetativa, e la intellettiva sta sopra la sensitiva. Dunque, come levando l'ultimo canto del pentangulo rimane quadrangulo e non più pentangulo, così levando l'ultima potenza dell'anima, cioè la ragione, non rimane più uomo, ma cosa con anima sensitiva solamente, cioè animale bruto. E questa è la sentenza del secondo verso della canzone impresa, nel quale si pongono l'altrui oppinioni.