II
Nel cominciamento di ciascuno bene ordinato convivio sogliono li sergenti prendere lo pane apposito e quello purgare da ogni macula. Per che io, che nella presente scrittura tengo luogo di quelli da due macule mondare intendo primieramente questa esposizione, che per pane si conta nel mio corredo. L'una è che parlare alcuno di se medesimo pare non licito; l'altra è che parlare in esponendo troppo a fondo pare non ragionevole: e lo illicito e 'l non ragionevole lo coltello del mio giudicio purga in questa forma.
Non si concede per li rettorici alcuno di se medesimo sanza necessaria cagione parlare, e da ciò è l'uomo rimosso, perché parlare d'alcuno non si può, che 'l parladore non lodi o non biasimi quelli di cui elli parla: le quali due cagioni rusticamente stanno, a fare dire di sé, nella bocca di ciascuno.
E per levare un dubbio che qui surge, dico che peggio sta biasimare che lodare, avegna che l'uno e l'altro non sia da fare. La ragione è che qualunque cosa è per sé da biasimare, è più laida che quella che è per accidente. Dispregiare se medesimo è per sé biasimevole, però che all' amico dee l'uomo lo suo difetto contare secretamente, e nullo è più amico che l'uomo a sé: onde nella camera de' suoi pensieri se medesimo riprendere dee e piangere li suoi difetti, e non palese.
Ancora: del non potere e del non sapere bene sé menare le più volte non è l'uomo vituperato, ma del non volere è sempre, perché nel volere e nel non volere nostro si giudica la malizia e la bontade; e però chi biasima se medesimo apruova sé conoscere lo suo difetto, apruova sé non essere buono: per che, per sé, è da lasciare di parlare sé biasimando. Lodare sé è da fuggire sì come male per accidente, in quanto lodare non si può, che quella loda non sia maggiormente vituperio. È loda nella punta delle parole, è vituperio chi cerca loro nel ventre: ché le parole sono fatte per mostrare quello che non si sa, onde chi loda sé mostra che non creda essere buono tenuto: che nolli 'ncontra sanza maliziata conscienza, la quale sé lodando discuopre e discoprendo si biasima.
E ancora la propia loda e lo propio biasimo è da fuggire per una ragione igualmente, sì come falsa testimonianza fare: però che non è uomo che sia di sé vero e giusto misuratore, tanto la propia caritate ne 'nganna.
Onde aviene che ciascuno ha nel suo giudicio le misure del falso mercatante, che vende coll'una e compera coll'altra; e ciascuno con ampia misura cerca lo suo mal fare, e con piccola cerca lo bene: sì che 'l numero e la quantità e 'l peso del bene li pare più che se con giusta misura fosse saggiato, e quello del male meno. Per che, parlando di sé con loda o col contrario, o dice falso per rispetto alla cosa di che parla, o dice falso per rispetto alla sua sentenza: c'ha l'una e l'altra falsitate.
E però, con ciò sia cosa che lo consentire è uno confessare, villania fa chi loda o chi biasima dinanzi al viso alcuno, perché né consentire né negare puote lo così estimato, sanza cadere in colpa di lodarsi o di biasimare: salva qui la via della debita correzione, che essere non può sanza improperio del fallo che correggere s'intende; e salva la via del debito onorare e magnificare, la quale passar non si può sanza fare menzione dell'opere virtuose o delle dignitadi virtuosamente acquistate.
Veramente, al principale intendimento tornando, dico che, come è toccato di sopra, per necessarie cagioni lo parlare di sé è conceduto: ed in tra l'altre necessarie cagioni due sono più manifeste. L'una è quando sanza ragionare di sé grande infamia o pericolo non si può cessare; e allora si concede, per la ragione che delli due rei sentieri prendere lo men reo è quasi prendere un buono. E questa necessitate mosse Boezio di se medesimo a parlare, acciò che sotto pretesto di consolazione escusasse la perpetuale infamia del suo essilio, mostrando quello essere ingiusto, poi che altro escusatore non si levava. L'altra è quando, per ragionare di sé, grandissima utilitade ne segue altrui per via di dottrina; e questa ragione mosse Agustino nelle sue Confessioni a parlare di sé, ché per lo processo della sua vita, lo quale fu di meno buono in buono, e di buono in migliore, e di migliore in ottimo, ne diede essemplo e dottrina, la quale per altro sì vero testimonio ricevere non si potea.
Per che, se l'una e l'altra di queste ragioni mi scusa, sofficientemente lo pane del mio comento è purgato della prima sua macula. Movemi timore d'infamia, e movemi disiderio di dottrina dare, la quale altri veramente dare non può. Temo la infamia di tanta passione avere seguita, quanta concepe chi legge le sopra nominate canzoni in me avere segnoreggiata: la quale infamia si cessa, per lo presente di me parlare, interamente, lo quale mostra che non passione ma vertù sia stata la movente cagione. Intendo anche mostrare la vera sentenza di quelle, che per alcuno vedere non si può s'io non la conto, perché è nascosa sotto figura d'allegoria: e questo non solamente darà diletto buono a udire, ma sottile amaestramento e a così parlare e a così intendere l'altrui scritture.