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Alighieri, Dante
Convivio

IV

Poi ch'è mostrato nel precedente capitolo quale è questo terzo cielo e come in se medesimo è disposto, resta di mostrare chi sono questi che 'l muovono. È adunque da sapere primamente che li movitori di quelli cieli sono sustanze separate da materia, cioè Intelligenze, le quali la volgare gente chiamano Angeli. E di queste creature, sì come delli cieli, diversi diversamente hanno sentito, avegna che la veritade sia trovata. Furono certi filosofi, de' quali pare essere Aristotile nella sua Metafisica (avegna che nel primo di Cielo incidentemente paia sentire altrimenti), che credettero solamente essere tante queste, quante circulazioni fossero nelli cieli, e non più; dicendo che l'altre sarebbero state etternalmente indarno, sanza operazione: ch'era impossibile, con ciò sia cosa che loro essere sia loro operazione. Altri furono, sì come Plato, uomo eccellentissimo, che puosero non solamente tante Intelligenze quanti sono li movimenti del cielo, ma eziandio quante sono le spezie delle cose (cioè le maniere delle cose): sì come è una spezie tutti li uomini, e un'altra tutto l'oro, e un'altra tutte le larghezze, e così di tutte. E volsero che, sì come le Intelligenze delli cieli sono generatrici di quelli, ciascuna del suo, così queste fossero generatrici dell'altre cose ed essempli, ciascuna della sua spezie; e chiamale Plato idee, che tanto è a dire quanto forme e nature universali. Li gentili le chiamavano Dei e Dee, avegna che non così filosoficamente intendessero quelle come Plato, e adoravano le loro imagini, e facevano loro grandissimi templi: sì come a Giuno, la quale dissero dea di potenza; sì come a Pallade o vero Minerva, la quale dissero dea di sapienza; sì come a Vulcano, lo quale dissero dio del fuoco, ed a Cerere, la quale dissero dea della biada. Le quali cose ed oppinioni manifesta la testimonianza de' poeti che ritraggono in parte alcuna lo modo de' gentili e nelli sacrifici e nella loro fede; e anco si manifesta in molti nomi antichi rimasi o per nomi o per sopranomi a lochi e antichi edificî, come può bene ritrovare chi vuole. E avegna che per ragione umana queste oppinioni di sopra fossero fornite, e per esperienza non lieve, la veritade ancora per loro veduta non fue, e per difetto di ragione e per difetto d'amaestramento; ché pur per ragione vedere si può in molto maggiore numero essere le creature sopra dette, che non sono li effetti che per li uomini si possono intendere. E l'una ragione è questa. Nessuno dubita, né filosofo né gentile né giudeo né cristiano né alcuna setta, ch'elle non siano piene di tutta beatitudine, o tutte o la maggiore parte, e che quelle beate non siano in perfettissimo stato. Onde, con ciò sia cosa che quella che è qui l'umana natura non pur una beatitudine abbia, ma due, sì com'è quella della vita civile e quella della contemplativa, inrazionale sarebbe se noi vedemo quelle avere la beatitudine della vita attiva, cioè civile, nel governare del mondo, e non avessero quella della contemplativa, la quale è più eccellente e più divina. E con ciò sia cosa che quella che ha la beatitudine del governare non possa l'altra avere, perché lo 'ntelletto loro è uno e perpetuo, conviene essere altre fuori di questo ministerio, che solamente vivano speculando. E perché questa vita è più divina, e quanto la cosa è più divina è più di Dio simigliante, e tanto è da Dio più amata quanto è più di Dio simigliante, manifesto è che questa vita è da Dio più amata: e se ella è più amata, più l'è la sua beatanza stata larga: e se più l'è stata larga, più viventi Dio l'ha dato che all'attiva. Per che si conchiude che troppo maggiore numero sia quello di quelle creature che li effetti non dimostrano. E non è contra quello che pare dire Aristotile nel decimo dell'Etica, che alle sustanze separate convegna pure la speculativa vita. Come pure la speculativa convegna loro, pure alla speculazione di certe segue la circulazione del cielo, che è del mondo governo; lo quale è quasi una ordinata civilitade, intesa nella speculazione delli motori. L'altra ragione si è che nullo effetto è maggiore della cagione, poi che la cagione non può dare quello che non ha; onde, con ciò sia cosa che lo divino intelletto sia cagione di tutto, massimamente dello 'ntelletto umano, manifesto è che l'umano quello non soperchia, ma da esso è improporzionalmente soperchiato. Dunque se noi, per le ragioni di sopra e per molt'altre, intendiamo Dio avere possuto fare innumerabili quasi creature spirituali, manifesto è lui questo avere fatto maggiore numero. Altre ragioni si possono vedere assai, ma queste bastino al presente. Né si maravigli alcuno se queste e altre ragioni che di ciò avere potemo, non sono del tutto dimostrative; ché però medesimamente dovemo amirare loro eccellenza – la quale soverchia li occhi della mente umana, sì come dice lo Filosofo nel secondo della Metafisica –, e affermar loro essere. Poi che, non avendo di loro alcuno senso (dal quale comincia la nostra conoscenza), pure risplende nel nostro intelletto alcuno lume della vivacissima loro essenzia, in quanto vedemo le sopra dette ragioni e molt'altre: sì come afferma chi ha li occhi chiusi l'aere essere luminoso, per un poco di splendore o vero raggio che passa per le pupille del palpastrello; ché non altrimenti sono chiusi li nostri occhi intellettuali, mentre che l'anima è legata e incarcerata per li organi del nostro corpo.