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Alighieri, Dante
Convivio

VIII

Ora ch'è mostrato come e perché nasce amore, e la diversitade che mi combattea, procedere si conviene ad aprire la sentenza di quella parte nella quale contendono in me diversi pensamenti. Dico che prima si conviene dire della parte dell'anima, cioè dell'antico pensiero, e poi dell'altro, per questa ragione, che sempre quello che massimamente dire intende lo dicitore sì dee riservare di dietro; però che quello che ultimamente si dice, più rimane nell'animo dello uditore. Onde, con ciò sia cosa che io intenda più a dire e a ragionare quello che l'opera di costoro a cu' io parlo fa, che quello che essa disfà, ragionevole fue prima dire e ragionare la condizione della parte che si corrompea, e poi quella dell'altra che si generava. Veramente qui nasce un dubio, lo quale non è da trapassare sanza dichiarare. Potrebbe dire alcuno (con ciò sia cosa che amore sia effetto di queste intelligenze a cu' io parlo, e quello di prima fosse amore così come questo di poi): Perché la loro vertù corrompe l'uno e l'altro genera? (con ciò sia cosa che innanzi dovrebbe quello salvare, per la ragione che ciascuna cagione ama lo suo effetto); e amando quello, salva quell'altro?. A questa questione si può leggiermente rispondere che lo effetto di costoro è amore, come detto è; e però che salvare nol possono se non in quelli subietti che sono sottoposti alla loro circulazione, esso transmutano di quella parte che è fuori di loro podestade in quella che v'è dentro, cioè dell'anima partita d'esta vita in quella che è in essa: sì come la natura umana transmuta, nella forma umana, la sua conservazione di padre in figlio, perché non può in esso padre perpetualmente cotal suo effetto conservare. Dico effetto, in quanto l'anima col corpo, congiunti, sono effetto di quella; ché l'anima, poi che è partita, perpetualmente dura in natura più che umana. E così è soluta la questione. Ma però che della immortalità dell'anima è qui toccato, farò una digressione ragionando di quella; perché di quella ragionando, sarà bello terminare lo parlare di quella viva Beatrice beata, della quale più parlare in questo libro non intendo per proponimento. Dico che intra tutte le bestilitadi quella è stoltissima, vilissima e dannosissima, chi crede dopo questa vita non essere altra vita; però che, se noi rivolgiamo tutte le scritture, sì de' filosofi come delli altri savi scrittori, tutti concordano in questo, che in noi sia parte alcuna perpetuale. E questo massimamente pare volere Aristotile in quello dell'Anima; questo pare volere massimamente ciascuno Stoico; questo pare volere Tulio, spezialmente in quello libello della Vegliezza; questo pare volere ciascuno poeta che secondo la fede de' gentili hanno parlato; questo vuole ciascuna legge, Giudei, Saracini, Tartari e qualunque altri vivono secondo alcuna ragione. Che se tutti fossero ingannati, seguiterebbe una impossibilitade che pure a ritraere sarebbe orribile. Ciascuno è certo che la natura umana è perfettissima di tutte l'altre nature di qua giù, e questo nullo niega, e Aristotile l'afferma quando dice nel duodecimo delli Animali che l'uomo è perfettissimo di tutti li animali. Onde, con ciò sia cosa che molti animali che vivono, interamente siano mortali, sì come animali bruti, e siano sanza questa speranza tutti mentre che vivono, cioè d'altra vita; se la nostra speranza fosse vana, maggiore sarebbe lo nostro difetto che di nullo altro animale, con ciò sia cosa che molti già sono stati che hanno data questa vita per quella: e così seguiterebbe che lo perfettissimo animale, cioè l'uomo, fosse imperfettissimo – che è impossibile – e che quella parte, cioè la ragione, che è sua perfezione maggiore, fosse a lui cagione di maggiore difetto: che del tutto diverso pare a dire. Ancora seguiterebbe che la natura contra se medesima questa speranza nella mente umana posta avesse, poi che detto è che molti alla morte del corpo sono corsi per vivere nell'altra vita: e questo è anche impossibile. Ancora: vedemo continua esperienza della nostra immortalitade nelle divinazioni de' nostri sogni, le quali essere non potrebbono se in noi alcuna parte immortale non fosse; con ciò sia cosa che immortale convegna essere lo revelante, o corporeo o incorporeo che sia, se bene si pensa sottilmente – e dico o corporeo o incorporeo, per le diverse oppinioni che io truovo di ciò –, e quello ch'è mosso o vero informato da informatore immediato debbia proporzione avere allo informatore, e dallo mortale allo immortale nulla sia proporzione. Ancora n'accerta la dottrina veracissima di Cristo, la quale è via, veritade e luce: via, perché per essa sanza impedimento andiamo alla felicitade di quella immortalitade; veritade, perché non soffera alcuno errore; luce, perché allumina noi nella tenebra della ignoranza mondana. Questa dottrina dico che ne fa certi sopra tutte altre ragioni, però che quello la n'hae data che la nostra immortalitade vede e misura. La quale noi non potemo perfettamente vedere mentre che 'l nostro immortale col mortale è mischiato; ma vedemola per fede perfettamente, e per ragione la vedemo con ombra d'oscuritade, la quale incontra per mistura del mortale coll'immortale. E ciò dee essere potentissimo argomento che in noi l'uno e l'altro sia; e io così credo, così affermo e così certo sono, ad altra vita migliore dopo questa passare, là dove quella gloriosa donna vive della quale fue l'anima mia innamorata quando contendea come nel seguente capitolo si ragionerae.