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Alighieri, Dante
Convivio

VII

Inteso può essere sofficientemente per le prenarrate parole della litterale sentenza della prima parte; per che alla seconda è da intendere, nella quale si manifesta quello che dentro io sentia della battaglia. E questa parte ha due divisioni: ché in prima, cioè nel primo verso, narro la qualitade di queste diversitadi secondo la loro radice, che erano dentro a me; poi narro quello che dicea l'una e l'altra diversitade, e però, prima, quello che dicea la parte che perdea, cioè nel verso ch'è lo secondo di questa parte e lo terzo della canzone; e poi quello che dicea la parte che vincea, cioè nel verso ch'è lo terzo di questa parte e lo quarto della canzone. Ad evidenzia dunque della sentenza della prima divisione, è da sapere che le cose deono essere denominate dall'ultima nobilitade della loro forma: sì come l'uomo dalla ragione, e non dal senso né d'altro che sia meno nobile. Onde, quando si dice l'uomo vivere, si dee intendere l'uomo usare la ragione, che è sua speziale vita ed atto della sua più nobile parte. E però chi dalla ragione si parte e usa pure la parte sensitiva, non vive uomo ma vive bestia: sì come dice quello eccellentissimo Boezio: «Asino vive». Dirittamente, dico, però che lo pensiero è propio atto della ragione, per che le bestie non pensano, ché non l'hanno; e non dico pur delle minori bestie, ma di quelle che hanno apparenza umana e spirito di pecora o d'altra bestia abominevole. Dico adunque che vita del mio core, cioè del mio dentro, suole essere un pensiero soave (soave è tanto quanto suaso, cioè abellito, dolce, piacente e dilettoso): questo pensiero se ne gìa spesse volte a' piedi del sire di costoro a cu' io parlo, ch'è Iddio: ciò è a dire che io pensando contemplava lo regno de' beati. E dico la finale cagione incontanente per che lassù io saliva pensando, quando dico: ove una donna glorïar vedia; a dare a intendere che , perché io era certo, e sono, per sua graziosa revelazione, che ella era in cielo. Onde io pensando spesse volte come possibile m'era, me n'andava quasi rapito. Poi sussequentemente dico l'effetto di questo pensiero, a dare a intendere la sua dolcezza, la quale era tanta che mi facea disioso della morte, per andare là dov'elli gìa; e ciò dico quivi: di cui parlava me sì dolcemente, che l'anima dicea: Io men vo' gire. E questa è la radice dell'una delle diversitadi ch'era in me. Ed è da sapere che qui si dice pensiero, e non anima, di quello che salia a vedere quella beata, perché era spezial pensiero a quello atto. L'anima s'intende, come detto è nel precedente capitolo, per lo generale pensiero, col consentimento. Poi quando dico: Or apparisce chi lo fa fuggire, narro la radice dell'altra diversitade, dicendo che, sì come questo pensiero di sopra suol essere vita di me, così un altro apparisce che fa quello cessare. E dico fuggire, per mostrare quello essere contrario, ché naturalmente l'uno contrario fugge l'altro, e quello che fugge mostra per difetto di vertù di fuggire. E dico che questo pensiero che di nuovo apparisce, è poderoso in prendere me e in vincere l'anima tutta, dicendo che esso segnoreggia sì che 'l cuore, cioè lo mio dentro, triema, e lo mio di fuori lo dimostra in alcuna nova sembianza. Sussequentemente mostro la potenza di questo pensiero nuovo per suo effetto, dicendo che esso mi fa mirare una donna, e dicemi parole di lusinghe, cioè ragiona dinanzi alli occhi del mio intelligibile affetto per meglio inducermi, promettendomi che la vista delli occhi suoi è sua salute. E a meglio fare ciò credere all'anima esperta, dice che non è da guardare nelli occhi di questa donna per persona che tema angoscia di sospiri. Ed è bel modo rettorico, quando di fuori pare la cosa disabellirsi, e dentro veramente s'abellisce. Più non potea questo novo pensiero d'amore inducere la mia mente a consentire, che col ragionare della vertù delli occhi di costei profondamente.