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Alighieri, Dante
Convivio

VIII

Quando è mostrato per le sufficienti ragioni come per cessare disconvenevoli disordinamenti converrebbe, alle nominate canzoni aprire e mostrare, comento volgare e non latino, mostrare intendo come ancora pronta liberalitate mi fece questo eleggere e l'altro lasciare. Puotesi adunque la pronta liberalitate in tre cose notare, le quali seguitano questo volgare, e lo latino non averebbero seguitato. La prima è dare a molti; la seconda è dare utili cose; la terza è, sanza essere domandato lo dono, dare quello. Ché dare a uno e giovare a uno è bene; ma dare a molti e giovare a molti è pronto bene, in quanto prende simiglianza dalli beneficî di Dio, che è universalissimo benefattore. E ancora: dare a molti è impossibile sanza dare a uno, acciò che uno in molti sia inchiuso; ma dare a uno si può bene sanza dare a molti. Però chi giova a molti fa l'uno bene e l'altro; chi giova a uno, fa pur l'un bene: onde vedemo li ponitori delle leggi massimamente pur alli più comuni beni tenere confisi li occhi, quelle componendo. Ancora: dare cose non utili al prenditore pure è bene, in quanto colui che dà mostra almeno sé essere amico; ma non è perfetto bene, e così non è pronto: come quando uno cavaliere donasse ad uno medico uno scudo, e quando uno medico donasse a uno cavaliere inscritti li Amphorismi d'Ipocràs o vero li Tegni di Galieno. Per che li savi dicono che la faccia del dono dee essere simigliante a quella del ricevente, cioè a dire che si convegna con lui, e che li sia utile: e in quello è detta pronta liberalitade di colui che così dicerne donando. Ma però che li morali ragionamenti sogliono dare desiderio di vedere l'origine loro, brievemente in questo capitolo intendo mostrare quattro ragioni per che di necessitade lo dono, acciò che in quello sia pronta liberalitade, conviene essere utile a chi riceve. Primamente, però che la vertù dee essere lieta, e non trista in alcuna sua operazione; onde, se 'l dono non è lieto nel dare e nel ricevere, non è in esso perfetta vertù, non è pronta. Questa letizia non può dare altro che utilitade, che rimane nel datore per lo dare, e che viene nel ricevitore per lo ricevere. Nel datore adunque dee essere la providenza in far sì che della sua parte rimagna l'utilitade dell'onestate, che è sopra ogni utilitade, e far sì che allo ricevitore vada l'utilitade dell'uso della cosa donata: e così sarà l'uno e l'altro lieto, e per consequente sarà più pronta la liberalitade. Secondamente, però che la vertù dee muovere le cose sempre al migliore. Ché così come sarebbe biasimevole operazione fare una zappa d'una bella spada o fare uno nappo d'una bella chitarra, così è biasimevole muovere la cosa d'un luogo dove sia utile e portarla in parte dove sia meno utile. E però che biasimevole è invano adoperare, biasimevole è non solamente a porre la cosa in parte ove sia meno utile, ma eziandio in parte ove sia igualmente utile. Onde, acciò che sia laudabile lo mutare delle cose, conviene sempre essere al migliore, per ciò che dee massimamente essere laudabile: e questo non si può fare nel dono, se 'l dono per transmutazione non viene più caro; né più caro può venire, se esso non è più utile a usare al ricevitore che al datore. Per che si conchiude che 'l dono conviene essere utile a chi riceve, acciò che sia in esso pronta liberalitade. Terziamente, però che la operazione della vertù per sé dee essere acquistatrice d'amici, con ciò sia cosa che la nostra vita di quello abisogni, e lo fine della vertù sia la nostra vita essere contenta. Onde, acciò che 'l dono faccia lo ricevitore amico, conviene a lui essere utile, però che l'utilitade sigilla la memoria della imagine del dono, la quale è nutrimento dell'amistade, e tanto più forte quanto essa è migliore. Onde suole dire Martino: Non caderà della mia mente lo dono che mi fece Giovanni. Per che, acciò che nel dono sia la sua vertù, la quale è liberalitade, e che essa sia pronta, conviene essere utile a chi riceve. Ultimamente, però che la vertù dee avere atto libero, e non sforzato. Atto libero è quando una persona va volentieri ad alcuna parte, che si mostra nel tener vòlto lo viso in quella; atto sforzato è quando contra voglia si va, che si mostra in non guardare nella parte ove si va. E allora sì guarda lo dono a quella parte, quando si dirizza al bisogno dello ricevente. E però che dirizzarsi ad esso non può se non sia utile, conviene, acciò che sia con atto libero la vertù, essere utile lo dono alla parte ov'elli vae, ch'è lo ricevitore, e per consequente conviene essere nello dono l'utilità dello ricevitore, acciò che quivi sia pronta liberalitade. La terza cosa, nella quale si può notare la pronta liberalitade, si è dare dono non domandato: acciò che 'l domandato è da una parte non vertù ma mercatantia, però che lo ricevitore compera, tutto che 'l datore non venda. Per che dice Seneca che «nulla cosa più cara si compera che quella dove i prieghi si spendono». Onde, acciò che nel dono sia pronta liberalitade e che essa si possa in esso notare, ancora si conviene essere netto d'ogni atto di mercatantia, cioè si conviene essere lo dono non domandato. Perché sì caro costa quello che si priega, non intendo qui ragionare, perché sufficientemente si ragionerà nell'ultimo trattato di questo libro.