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Alighieri, Dante
Convivio

XXIII

Poi che dimostrata sufficientemente pare la diffinizione di nobilitade, e quella per le sue parti, come possibile è stato, è dichiarata, sì che vedere si puote omai che è lo nobile uomo, da procedere pare alla parte del testo che comincia: L'anima cui adorna esta bontate, nella quale si mostrano li segni per li quali conoscere si puote il nobile uomo che detto è. E dividesi questa parte in due: ché nella prima s'afferma che questa nobilitade luce e risplende per tutta la vita del nobile, manifestamente; nella seconda si dimostra specificamente nelli suoi splendori; e comincia questa seconda parte: Ubidente, soave e vergognosa. Intorno della prima parte è da sapere che questo seme divino di cui parlato è di sopra, nella nostra anima incontanente germoglia, mettendo e diversificando per ciascuna potenza dell'anima secondo la essigenza di quella. Germoglia dunque per la vegetativa, per la sensitiva e per la razionale; e dibrancasi per le vertuti di quelle tutte, dirizzando quelle tutte alle loro perfezioni, e in quelle sostenendosi sempre infino al punto che, con quella parte della nostra anima che mai non muore, all'altissimo e gloriosissimo seminadore al cielo ritorna. E questo dice per quella prima parte che detta è. Poi quando comincia: Ubidente, soave e vergognosa, mostra quello per che potemo conoscere l'uomo nobile alli segni apparenti, che sono, di questa bontade divina, operazione; e partesi questa parte in quattro, secondo che per quattro etadi diversamente adopera, sì come per l'adolescenza, per la gioventute, per la senettute e per lo senio. E comincia la seconda parte: in giovinezza, temperata e forte; la terza comincia: è nella sua senetta; la quarta comincia: poi nella quarta parte della vita. E questa è la sentenza di questa parte in generale. Intorno alla quale si vuole sapere che ciascuno effetto, in quanto effetto è, riceve la similitudine della sua cagione quanto è più possibile di ritenere. Onde, con ciò sia cosa che la nostra vita, sì come detto è, ed ancora d'ogni vivente qua giù, sia causata dal cielo e lo cielo a tutti questi cotali effetti, non per cerchio compiuto ma per parte di quello a loro si scuopra; e così conviene che 'l suo movimento sia sopra essi come uno arco quasi, e tutte le terrene vite (e dico terrene, sì delli uomini come delli altri viventi), montando e volgendo, convengono essere quasi a imagine d'arco asimiglianti. Tornando dunque alla nostra, sola della quale al presente s'intende, sì dico ch'ella procede a imagine di questo arco, montando e discendendo. Ed è da sapere che questo arco di giù, come l'arco di su sarebbe equale, se la materia della nostra seminale complessione non impedisse la regola della umana natura. Ma però che l'umido radicale è meno e più, e di migliore qualitade e men buona, e più ha durare in uno che in uno altro effetto – lo quale è subietto e nutrimento del calore che è nostra vita –, aviene che l'arco della vita d'un uomo è di minore e di maggiore tesa che quello dell'altro. E alcuna morte è violenta, o vero per accidentale infertade affrettata; ma solamente quella che naturale è chiamata dal vulgo, e che è, è quel termine del quale si dice per lo Salmista: «Ponesti termine, lo quale passare non si può». E però che lo maestro della nostra vita Aristotile s'accorse di questo arco di che ora si dice, parve volere che la nostra vita non fosse altro che uno salire e uno scendere: però dice in quello dove tratta di Giovinezza e di Vecchiezza, che giovinezza non è altro se non acrescimento di quella. Là dove sia lo punto sommo di questo arco, per quella disaguaglianza che detta è di sopra, è forte da sapere; ma nelli più, io credo, tra il trentesimo e 'l quarantesimo anno; e io credo che nelli perfettamente naturati esso ne sia nel trentacinquesimo anno. E muovemi questa ragione: che ottimamente naturato fue lo nostro salvatore Cristo, lo quale volle morire nel trentaquattresimo anno della sua etade; ché non era convenevole la divinitade stare in cosa in discrescere; né da credere è ch'elli non volesse dimorare in questa nostra vita al sommo, poi che stato c'era nel basso stato della puerizia. E ciò manifesta l'ora del giorno della sua morte, cioè di Cristo, che volle quella consimigliare colla vita sua: onde dice Luca che era quasi ora sesta quando morìo, che è a dire lo colmo del die. Onde si può comprendere per quello quasi che al trentacinquesimo anno di Cristo era lo colmo della sua etade. Veramente questo arco non pur per mezzo si distingue dalle scritture; ma, seguendo le quattro combinazioni delle contrarie qualitadi che sono nella nostra composizione, alle quali pare essere apropiata, dico a ciascuna, una parte della nostra etade, in quattro parti si divide, e chiamansi quattro etadi. La prima è Adolescenza, che s'apropia al caldo e all'umido; la seconda si è Gioventute, che s'apropia al caldo e al secco; la terza si è Senettute, che s'apropia al freddo e al secco; la quarta si è Senio, che s'apropia al freddo e all'umido, secondo che nel quarto della Metaura scrive Alberto. E queste parti si fanno simigliantemente nell'anno, cioè in primavera, in estate, in autunno e in verno; e nel die, cioè infino alla terza, e poi infino alla nona (lasciando la sesta nel mezzo di questa parte, per la ragione che sì dicerne), e poi infino al vespero, e dal vespero inanzi. E però li gentili, cioè li pagani, diceano che 'l carro del sole avea quattro cavalli: lo primo chiamavano Eoo, lo secondo Pirroi, lo terzo Eton, lo quarto Filogeo, secondo che scrive Ovidio nel secondo del Metamorfoseos. Intorno alle parti del giorno è brievemente da sapere che, sì come detto è di sopra nel sesto capitolo del terzo trattato, la Chiesa usa, nella distinzione delle ore del die ore temporali, che sono in ciascuno die dodici, o grandi o picciole secondo la quantitade del sole; e però che la sesta ora, cioè lo mezzo die, è la più nobile di tutto lo die e la più virtuosa, li suoi officii appressa quivi da ogni parte, cioè da prima e di poi, quanto puote. E però l'officio della prima parte del die, cioè la terza, si dice in fine di quella; e quello della terza parte e della quarta si dice nelli principii. E però si dice mezza terza prima che suoni per quella parte; e mezza nona poi che per quella parte è sonato; e così mezzo vespero. E però sappia ciascuno che nella diritta nona sempre dee sonare nel cominciamento della settima ora del die. E questo basti alla presente digressione.