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Alighieri, Dante
Convivio

XX

Quando appresso séguita: Dunque verrà, come dal nero il perso, procede lo testo alla diffinizione di nobilitade, la quale si cerca, e per la quale si potrà vedere che è questa nobilitade di che tanta gente erroneamente parla. Dice adunque, conchiudendo da quello che dinanzi detto è: dunque ogni vertude, «o vero il gener lor», cioè l'abito elettivo consistente nel mezzo, verrà da questa, cioè nobilitade. E rende essemplo nelli colori, dicendo: sì come lo perso dal nero discende, così questa, cioè vertude, discende da nobilitade. Lo perso è uno colore misto di purpureo e di nero, ma vince lo nero, e da lui si dinomina; e così la vertù è una cosa mista di nobilitade e di passione; ma perché la nobilitade vince in quella, è la vertù dinominata da essa, e appellata bontade. Poi appresso argomenta per quello che detto è, che nessuno per poter dire: Io sono di cotale schiatta, non dee credere essere con essa, se questi frutti non sono in lui. E rende incontanente ragione dicendo che quelli che hanno questa «grazia», cioè questa divina cosa, sono «quasi» come «dèi», sanza macula di vizio; e ciò dare non può se non Iddio solo, appo cui non è scelta di persone, sì come le divine Scritture manifestano. E non paia troppo alto dire ad alcuno, quando si dice: ch'elli son quasi dèi; ché, sì come di sopra nel settimo capitolo del terzo trattato si ragiona, così come uomini sono vilissimi e bestiali, così uomini sono nobilissimi e divini; e ciò pruova Aristotile nel settimo dell'Etica per lo testo d'Omero poeta. Sì che non dica quelli delli Uberti di Fiorenza, né quelli delli Visconti da Melano: Perch'io sono di cotale schiatta, io sono nobile; ché 'l divino seme non cade in ischiatta, cioè in istirpe, ma cade nelle singulari persone; e, sì come di sotto si proverà, la stirpe non fa le singulari persone nobili, ma le singulari persone fanno nobile la stirpe. Poi, quando dice: ché solo Iddio all'anima la dona, ragione è del suscettivo, cioè del subietto dove questo divino dono discende: ché bene è divino dono, secondo la parola dell'Apostolo: «Ogni ottimo dato e ogni dono perfetto di suso viene, discendendo dal Padre de' lumi». Dice adunque che Dio solo porge questa grazia all'anima di quelli cui vede stare perfettamente nella sua persona, aconcio e disposto a questo divino atto ricevere. Ché, secondo che dice lo Filosofo nel secondo dell'Anima, «le cose convengono essere disposte alli loro agenti, e a ricevere li loro atti»; onde, se l'anima è imperfettamente posta, non è disposta a ricevere questa benedetta e divina infusione: sì come se una pietra margarita è male disposta o vero imperfetta, la vertù celestiale ricevere non può: sì come disse quel nobile Guido Guinizzelli in una sua canzone che comincia: «Al cor gentil ripara sempre Amore». Puote adunque l'anima stare non bene nella persona per manco di complessione, o forse per manco di temporale: ed in questa cotale questo raggio divino mai non risplende. E possono dire questi cotali la cui anima è privata di questo lume, che essi siano sì come valli volte ad aquilone, o vero spelunche sotterranee, dove la luce del sole mai non discende se non repercussa da altra parte da quella illuminata. Ultimamente conchiude, e dice che, per quello che dinanzi detto è (cioè che le vertudi sono frutto di nobilitade, e che Dio questa metta nell'anima che ben siede), che «ad alquanti», cioè a quelli che hanno intelletto, che sono pochi, è manifesto che nobilitade umana non sia altro che seme di felicitade, messo da Dio nell'anima ben posta, cioè lo cui corpo è d'ogni parte disposto perfettamente. Ché se le vertudi sono frutto di nobilitade, e felicitade è dolcezza per quelle comparata, manifesto è essa nobilitade essere semente di felicitade, come detto è. E se bene si guarda, questa diffinizione tutte e quattro le cagioni, cioè materiale, formale, efficiente e finale, comprende: materiale in quanto dice: «nell'anima ben posta», che è materia e subietto di nobilitade; formale in quanto dice che è «seme»; efficiente in quanto dice: «messo da Dio nell'anima»; finale in quanto dice: «di felicitade». E così è diffinita questa nostra bontade, la quale in noi similemente discende da somma e spirituale virtude, come virtude in pietra da corpo nobilissimo celestiale.